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Tutti gli appartamenti hanno vasi

che gocciolano il nettare prodotto

in cucina, diffuso nel salotto

e consumato in una piazza comoda.

Lei allora disse che avevo in mente il buio

come un peso sullo stomaco. Un ambiente 

corroso che non fa distinguere il pensiero

dall’alfabeto incerto che lo sostiene. 

Credo intendesse che la penombra contiene

la singolarità degli occhi mentre libera

dai confini i cuori in funzione. Mi corruppe.

Disse, mi pare, "filtro da te", poi si spogliò. 

Era splendente in assetto di Venere.

Le feci notare che quelle osservazioni 

rendevano il divano poco adatto a reggere

il gioco, mentre una carezza sulla nuca 

avrebbe trasformato ogni battito in gemito. 

Dio è una espressione del genere e, 

in quanto morenti, questo ci serve.

Lei concesse la schiena andando diritto

a come la pensavo, ma l’anima, per il flagello

della coniugazione e la supremazia del peccato,

si era già data in pegno in forma di corpo,

la sua compagine avversa. 

A modo mio le do il bene che posso

come un acino, poi un altro ancora: a grappolo.

La colgo dal mio filare. Mi trattengo. 

Per la sommità del seno dove giungo in affanno

in grazia della sua disposizione millenaria. 

So che al buio la lingua può farsi luce. 

Divina mentre mi ricorda

di non pubblicare simili orpelli. 

 

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